Verso Lerici: SUL PASSO DELLA CISA (Dal mio libro: Sulle Tracce di Sigerico)

Ricordo ancora quei pomeriggi domenicali1 di quindici anni fa, quando mi preparavo per tornare a Lerici e riprendere il lavoro il lunedì mattina. La prima volta che valicai il Passo mi rimase indelebile il ricordo di un mondo diverso. Quel pomeriggio, verso Berceto, la luce del sole cominciava a sbiadire sul versante dell’Appennino emiliano, mentre colorava gli alti contorni del Monte Bardone2 per andare a tramontare sul Mar Ligure, Lerici e il Golfo dei Poeti. Guardando sul vetro retrovisore, alle mie spalle, cominciava a diradare la stretta della cappa nebbiosa dell’Emilia.


1 pomeriggi domenicali: Da casa mia, dalla periferia di San Giovanni in Persiceto, ogni domenica pomeriggio tornavo a Lerici per iniziare a lavorare nella Nuovo Pignone, presso il cantiere navale Navalmare a Muggiano (La Spezia). 2 Monte Bardone: dal latino Mons Longobardorum, il monte dei longobardi, il passo della Cisa. Furono i Longobardi a costruire il valico scoperto del monte, per motivi militari.


BERCETO, “Sce Moderanne”. Così Sigerico chiamò la XXXIII mansione del suo pellegrinaggio. L’impronta del medioevo vive ancora nella comunità e negli antichi monumenti di questo borgo eretto al confine fra Emilia e Toscana. Nel medioevo la storia e le legende s’intrecciavano spesso. Ad aumentare il fascino di questo antico borgo contribuisce la leggenda del calice di vetro finissimo e integro scoperto in seguito ad alcuni scavi di consolidamento nel duomo di Berceto. Sotto il presbiterio (la parte dell’altare maggiore riservata al vescovo e al clero officiante) venne alla luce un’antica tomba monacale senza scritture. Nella tomba fu rinvenuto un calice di vetro di raffinata fattezza, talmente bello che i monaci di allora, a seguito di altri eventi e leggende, cominciarono ad associarlo al leggendario Sacro Graal. Sempre nel presbiterio, e al centro dell’altare maggiore è incastonato un pluteo longobardo con un bassorilievo raffigurante una croce circondata da due pavoni, cosa che dimostra come l’antica chiesa fosse stata costruita in epoca longobarda e nel VII secolo.

Nel 718 Moderanno, vescovo di Rennes, si mise in cammino per Roma, su quelle vie romee che dovevano diventare la Via Francigena. Portava, custodite in un sacchetto, alcune reliquie di San Remigio (nominato vescovo di Reims all’età di 22 anni). Giunto presso Berceto si fermò per riposare sotto un albero e appese il sacchetto su un ramo. Poi proseguì dimenticando il sacchetto e quando ritornò a prenderlo si accorse che il ramo dell’albero era cresciuto a dismisura e non potette recuperarlo. Moderanno fu sopraffatto dallo stupore e promise di lasciare le reliquie appese all’albero. Questo è il luogo dove sorse l’attuale Duomo di San Moderanno.

Questo bellissimo duomo in stile romanico del XII secolo fu costruito sulle rovine di un’antica abbazia longobarda di re Liutprando. Nel XV secolo fu ampliata dalla potente famiglia Rossi, i signori di Berceto, come dimostrano le sculture del loro stemma sulla facciata esterna della chiesa: “i leoni rampanti sotto la crocifissione di Gesù”.

La bellezza di questa chiesa viene esaltata dall’antico pavimento grezzo in lastroni di pietra arenaria. Chi si ferma a pensare può immaginare e sentire lo scalpiccio dei sandali degli antichi monaci, di San Moderanno e di Sigerico su quel selciato millenario consumato dalla storia. Naturalmente, dopo questo breve compendio, non deve mancare la tradizionale bevuta alla Fonte Romea dove i pellegrini si fermavano a riposare e a ristorarsi con la freschissima e naturale acqua gassata.

Per i pellegrini non esisteva la comoda galleria dell’autostrada che in pochi minuti porta in Lunigiana (Alta Toscana), ma esistevano i vecchi sentieri da percorrere a piedi. Uscendo dal Centro Storico e poi da Via Achille Monti, si attraversa la Strada Provinciale 114 prendendo una mulattiera che porta ad un torrente e che bisogna guadare per inoltrarsi in un bosco da cui si esce e, percorrendo salite e discese, si arriva in località Tugo. Qui c’è una biforcazione: la via più semplice, è quella asfaltata, che porta alla casa cantoniera di Tugo, cioè la Strada Statale 62 che porta al Passo della Cisa; la seconda, e più impegnativa, è la variante che porta alla sella di MonteValoria, un percorso suggestivo nella natura e in mezzo a boschi di faggi.

Credo che proprio qui inizia il percorso più bello di tutta la Via Francigena, per continuare nell’alta Toscana. Mentre giri la testa ti può capitare di incontrare lo sguardo estasiato di qualche altro pellegrino che spesso si attarda qui per appagarsi vicino a una edicola votiva, che indica la discesa verso la strada statale che porta all’Ostello e alla piccola chiesa della Madonna della Guardia del Passo della Cisa.

Si arriva ad un luogo simbolo della Via Francigena, perché qui esisteva l’ultimo ospitale che accoglieva il pellegrino prima di valicare il Passo.

IL PASSO DELLA CISA

– Lo spartiacque dell’appennino tosco-emiliano

La via che collegò la pianura padana alla Toscana fu costruita dai longobardi, popolo germanico guidato da Alboino che nel 568 invase l’Italia. Nel VII secolo costruirono il valico appenninico, esattamente sul Monte Bardone, l’attuale Passo della Cisa, che consentì il formarsi della via più importante dal nord verso Roma.

Varcato il Passo entriamo nella provincia più a nord della Toscana, la Lunigiana che deve il suo nome alla diocesi medioevale di Luni l’antica città e colonia romana fondata due secoli a.C. sulla foce del fiume Magra e che comprendeva il territorio delle attuali provincie di Massa-Carrara e La Spezia.

Anche il Boccaccio, nel suo Decamerone, dedica due novelle alla Lunigiana: All’inizio della sua quarta novella così cita un monastero: “Fu in Lunigiana, paese non molto da questo lontano, uno manistero già di santità e di monaci più copioso che oggi non è”. Il riferimento alla località è non è sicura ma è certo che deve trattarsi del Monastero Benedettino di Montelungo, oppure del Priorato di Santa Croce del Corvo, sul Monte Caprione, sopra Lerici.

Raccontare la Toscana non basterebbero cento tomi voluminosi anziché queste poche pillole di storia, quelle più strettamente necessarie per descrivere un popolo che, a partire dagli etruschi fino al “Rinascimento” e oltre, tanto ha dato all’Italia e a tutta l’Europa. Questa terra affonda le sue radici a l’età della pietra antica ossia al Paleolitico, fino alla “civiltà Villanoviana”, il cui nome deriva dall’attuale Villanova di Castenaso, alle porte di Bologna, che si diffuse sul versante adriatico fino a Rimini e a Sud-Ovest in Toscana e nel Lazio.

Raggiunse l’apice di prosperità verso l’VIII secolo a.C., come dimostrano i ritrovamenti successivi di necropoli e la “fattura” di ceramiche e utensili, anche in ferro e bronzo.

Questa civiltà si divide in Villanoviani del nord (quelli di Villanova di Castenaso) e Villanoviani del sud (quelli di Lazio e soprattutto della Toscana) dove con il passare dei secoli si diffuse una nuova lingua, la lingua etrusca.

Si può ipotizzare che gli Etruschi derivino dalla civiltà Villanoviana o almeno che si siano integrati nella cultura dei Villanoviani nei territori del sud. I greci li chiamarono “tirreni” e i romani “Etruschi o Tusci” ma loro chiamavano se stessi “Rasenna” . Sulla provenienza degli Etruschi gli studiosi non sono arrivati a concordare, anche perchè la loro lingua non ha niente in comune con le altre lingue di quell’epoca:

  • Un’ipotesi è quella dell’evoluzione culturale di questo popolo in seno ai luoghi stessi dell’Etruria.
  • Erodoto ipotizzò l’origine etrusca ad un mitico fondatore: un eroe prove- niente dalla Turchia (la leggenda di Enea?).
  • L’ipotesi più accreditata è quella della provenienza dalla “civiltà Villanoviana”.

Gli etruschi, dopo ad aver conquistato il mediterraneo orientale, si allearono con i cartaginesi sconfiggendo i greci in Corsica e ponendo fine al dominio greco nelle isole italiche. A Roma regnavano re etruschi: i “Tarquini” e l’ultimo, il settimo re di Roma, fu proprio Tarquinio Lucio, detto il “Superbo” che fu cacciato dai romani nel 509 a.C. dando inizio all’ indipendenza romana e all’espansione in Etruria.

Nel 396 a.C. Roma conquistò Vejo, nel 356 a.C. Tarquinia, nel 311, Cerveteri, nel 300 a.C. Perugia e Arezzo decretando la fine della civiltà etrusca che fu inglobata in quella romana.

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IL RINASCIMENTO TOSCANO

Scrivere del Rinascimento, che si sviluppò in Toscana, rischierei di andare oltre lo scopo di questo libro. Ma fu così tanta l’importanza e la bellezza di questo fervore culturale, attorno alle tracce di Sigerico, da oltrepassare i confini Toscani e dell’Italia per diffondersi in tutta Europa.

Tutti i potenti di allora, re, papi e imperatori fecero a gara per avere al proprio servizio un pittore, uno scultore, un architetto o un poeta toscano. L’evoluzione di un nuovo modo di pensare e la fioritura straordinaria di una nuova cultura favorì la ricerca e l’attuazione di nuove e più precise forme scultoree e pittoriche nel rispetto delle proporzioni e con la giusta prospettiva.

Fu Firenze a dare il primo impulso a questa rivoluzione del pensiero umano che creò una nuova scienza e coscienza e di questo va dato il giusto merito a quella nobile casata fiorentina di mecenati “i Medici”, signori di Firenze, che incoraggiarono e contribuirono all’evolversi di tutto ciò.

I primi sintomi del cambiamento si cominciarono a notare dopo la costruzione della basilica di Santa Maria in Fiore, il duomo di Firenze, iniziato nel 1296 da Arnolfo di Cambio nello stile dominante di quell’epoca “il gotico internazionale” che a Firenze andava modificandosi in stile “Gotico italiano”. La chiesa fu costruita sulle rovine della chiesa di “Santa Reparata”.

Occorsero circa duecento anni per finire, ma non completamente, quest’opera divenuta un monumento e inno alla bellezza architettonica. È la basilica più grande al mondo, fra quelle costruite in pietra. Anche Giotto diede il suo contributo: nel 1331 cominciò la costruzione del bellissimo campanile. Dopo la morte di Giotto i lavori proseguirono con Andrea Pisano (dal 1337 fino al 1348, l’anno della peste). Il campanile fu ultimato l’anno successivo e la chiesa, ad eccezione della cupola, fu quasi ultimata entro il 1418. Ma per quell’epoca i “miracoli” non dovevano finire. Nel 1420 la cupola in muratura fu finita da Brunelleschi che vinse l’appalto presentando un modellino con sezione, in legno e muratura, realizzato con l’aiuto di Raffaello.

Per questo, scrivendo della Toscana, non si può non accennare, seppure minimamente, alla sua evoluzione, ai mitici personaggi e agli artisti che misero fine al medioevo lavorando con nuovo fervore alla ricerca della perfezione, di giuste proporzioni, di estetica e armonia nelle loro anguste “botteghe”. Vorrei elencare la moltitudine di quegli artisti ch’erano disputati dai potenti e regnanti dell’epoca e che ancor oggi sono il vanto dell’Italia. Questi toscani, squarciando di netto le tenebre del medioevo misero fine anche al “Gotico Internazionale”. Per i motivi a cui accennavo prima, mi limito a citarne pochi, e con poche opere. Fra i tanti all’epoca si distinsero maggiormente:

“Leonardo da Vinci”, un genio toscano appartenente al mondo intero. Per scrivere su Leonardo rischierei di dimenticare il viaggio di Sigerico in Lunigiana. Mi limito a illustrare solo qualche opera di questo illustre pittore, scultore, inventore, architetto, ingegnere,   scienziato, ecc. ecc. di cui si disputavano i servizi tutti i potenti e le corti dell’epoca, in Italia e nell’Europa. Credo che Leonardo sia il compendio di tutto ciò che è stato il Rinascimento: “un salto nel futuro”. Attraverso la simbologia medioevale del cielo (il cerchio) e della terra (il quadrato) volle rappresentare l’uomo al centro dell’universo (la figura umana “insiste” nel cerchio e il suo ombelico è il centro) a dimostrazione che “uomo e universo” sono soggetti alle stesse regole e proporzioni.

“Michelangelo Buonarroti” (scultore, pittore, architetto e poeta). I figli della Toscana non finiscono di stupire.

Compì anche l’impresa artistica più grande di tutto il Rinascimento; un affresco che con nove scene, figure di sibille, di profeti e antenati di Cristo, racconta “La Genesi”, nella volta della “Cappella Sistina” in Vaticano, un’opera veramente “immensa come valore artistico” e sicuramente la più grande del Rinascimento. Anche un grande esperto farebbe fatica a descrivere questa “meraviglia” in un solo libro. Il Papa “Giulio II” (nipote del papa “Sisto IV”, che l’aveva fatta iniziare da altri artisti) commissionò a Michelangelo il rifacimento del soffitto della “Cappella Sistina” nel 1508. Michelangelo accettò l’incarico malvolentieri ma lascò Firenze e si trasferì a Roma dove finì l’opera nel 1511.

Ma la storia della “Cappella Sistina” non finisce qui. Dopo venticinque anni ed esattamente nel 1536 papa “Paolo II” commissionò un’opera che fu incomin- ciata sotto il papa “Paolo III”. Michelangelo non volle dipingere sui vecchi affreschi (c’erano affreschi del Perugino e anche quelli suoi fatti dieci anni prima) e ottenne dal nuovo papa “Clemente VII” di costruire una contro-parete per chiudere e rifare tutto nuovo. La contro-parete fu costruita in mattoni e inclinata verso la sommità per dare dell’opera una visione “avvolgente” all’osservatore in basso. Michelangelo superò se stesso e nel 1541, quando il Rinascimento era già alle spalle, lasciò ai posteri un “patrimonio dell’umanità “Il Giudizio Universale”, uno degli affreschi che tutto il mondo ci invidia.

“Giorgio Vasari” – Architetto e Pittore. Fra le tante opere affrescò l’interno della “Cupola di Santa Maria del Fiore”, costruita da Brunelleschi.

Su suo progetto fu realizzato il “Corridoio Vasariano” che collega il palazzo vecchio a “Palazzo Pitti”, attraversando “Ponte vecchio” e, fra l’altro collega il “Palazzo vecchio” alla “galleria degli Uffizi”.

FIRENZE- “Le Gallerie degli Uffizi” – Divenuto Museo Nazionale non solo per la sua bellezza architettonica ma prevalentemente per gli immensi tesori di opere artistiche racchiuse nelle sue “gallerie”. Il nome deriva dallo scopo per cui furono costruite: Gli uffizi, ossia gli uffici occorrenti all’amministra-zione governativa di Firenze. “Cosimo I dei Mediciincaricò proprio il “Vasari” a realizzare gli uffizi (“in sul fiume e quasi in aria”) e il “Corridoio Vasariano”.

E per ultimo, ma non per importanza, colui a cui l’Italia deve la sua lingua, una storia nella storia dei grandi toscani.

Il padre della lingua italiana nacque a Firenze nel 1265, ma il figlio prediletto fu scacciato dai suoi concittadini. All’epoca, a Firenze, si fronteggiavano due schieramenti politici “i guelfi” che sostenevano la supremazia del papa contro i “ghibellini” che favorivano la politica dell’imperatore.

Dante, trentenne, era già un famoso personaggio politico con incarichi importanti e militante nello schieramento guelfo. In seguito i guelfi si divisero in due gruppi (la moderna scissione dei partiti):

1)- i guelfi bianchi ch’erano l’ala moderata del partito, quelli che volevano un maggior dialogo con l’impero.

2)- i guelfi neri che non accettavano alcun dialogo, ad di fuori del papato.

Dante che si era schierato con i guelfi bianchi fu tacciato di tradimento ed espulso come uno dei tanti ghibellini. Per eliminarlo dalla scena politica il tribunale cittadino lo accusò con questa sentenza:

“Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”.

  “Per non rischiare la pena di morte si rifugiò a Forlì accolto dalla famiglia Ordelaffi, la potente famiglia ghibellina che dominava Forlì e Cesena. Così Dante, lui che si era considerato sempre di fede guelfa, viene accolto dagli ex nemici ghibellini con i quali si schiera contro gli ex amici guelfi, al grido “morte a tutti i guelfi”.

Ma quando, per i ghibellini, le cose si mettono male, da buon politico pensa che forse è il caso di chiedere perdono al regime guelfo di Firenze con la speranza di tornarvi. Comincia a scrivere l’Inferno della Divina Commedia e per convincere i fiorentini della sua fede guelfa mette all’Inferno Farinata degli Uberti, il più acerrimo nemico dei guelfi, capo e grande condottiero ghibellino, che nella battaglia di Montaperti trucidò fiorentini e lucchesi insanguinando il fiume Arbia.

Nel canto decimo, per bocca di Farinata e in un serrato dialogo, vien fuori un bel quadretto, dove Dante figura un vero guelfo sempre a confronto e scontro contro i ghibellini1.

Nel canto decimo, per bocca di Farinata e in un serrato dialogo, vien fuori un bel quadretto, dove Dante figura un vero guelfo sempre a confronto e scontro contro i ghibellini1.

Inferno Canto Decimo-Vers 11:

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai»


1 Contro i ghibellini: (Una leggera digressione). Dante, da buon politico, dimentica che poco tempo prima aveva approvato una proposta del figlio di Farinata, al grido morte a tutti i guelfi)


Nel 2021, a Forlì (al museo di San Domenico) e a Firenze (nella Galleria degli Uffizi) si celebra il 700° anniversario della morte.

Dante fu grato alla città di Forlì, tanto che nella sua “Divina Commedia” (Inferno-canto XXVII) citò:

  • la terra che lo accolse dimostrando la fede ghibellina (verso 43: “La terra che fé già la lunga prova);
  • la sanguinosa battaglia vinta contro le truppe dei francesi e i guelfi di papa Martino IV (verso 44: “e di franceschi sanguinoso mucchio”)
  • e la nobile famiglia Ordelaffi che come stemma aveva un leone rampante di colore verde.  (verso 45: “sotto le branche verdi si ritrova”).

Per il suo anniversario (700 anni dalla morte), Firenze organizza una mostra interattiva alle “Gallerie degli uffizi”, intitolata: “A riveder le stelle

Alla caduta dei Medici tutto il patrimonio artistico di Firenze rischiò di essere disperso e nel 1737 fu ancora una volta una discendente dei Medici “Anna Maria Luisa Medici” a fare un inventario preciso di tutte le opere e convincere le potenze straniere, con il “Patto di Famiglia”, a lasciare a Firenze questa eredità per l’umanità, adducendo come motivazione: “per l’ornamento dello stato, per l’utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei forestieri”.

Ma è giunta l’ora di ritornare sui nostri passi e ai miei ricordi. La via che collegò la pianura padana alla Toscana fu costruita dai Longobardi, popolo germanico guidato da Alboino che nel 568 invase l’Italia. Nel VII secolo costruirono il valico appenninico, esattamente sul Monte Bardone, l’attuale Passo della Cisa, che consentì il formarsi della via più importante dal nord verso Roma.

I Longobardi, la definivano “Per Alpem Bardonis Tusciam Ingressus”

(La porta Toscana attraverso Monte Bardone), come disse anche l’Imperatore Federico II, passando per questo valico diretto a Pontremoli.

Percorsa quasi tutta la galleria del Passo della Cisa, e prima di uscire, vidi un gran chiarore che appena uscito m’investì con tutta la luce che sa dare un pomeriggio autunnale dell’Alta Toscana. Lungo il percorso verso Luni2, la macchina sembrava che volesse rallentare. Pregustavo già di intravedere i castelli, i luoghi dell’antico medioevo, della Via di Sigerico (La Via Francigena) e la Via del Volto Santo6.


1 Luni: Unodei più importanti porti militari e commerciali dell’antica Roma. Diede il nome alla Lunigiana l’attuale territorio dell’alta Toscana, che va dal mar ligure al confine dell’Emilia.  Costruita alla foce del fiume Magra, con l’andar del tempo fu abbandonata perché i detriti del fiume la sommersero. 2 Via del Volto Santo: Una delle tante Vie Romee, I sentieri che percorrevano e percorrono i pellegrini per recarsi a Roma. La Via del Volto Santo è la variante montata che conduce a Lucca


Siamo in LUNIGIANA, la provincia dell’Alta Toscana che ha preso il nome dall’antica città e porto romano alle foci del Fiume Magra: Luni. Qui, il paesaggio sembra portarci indietro di più di mille anni. Le ripide discese nei boschi, gli antichi borghi con ponti, case, strade e castelli, tutto costruito in pietra, fanno rivivere il cammino degli antichi pellegrini lungo questi impervi sentieri dove il medioevo è durato più che in altre contrade. Lungo questa valle (valle del Fiume magra), si snoda uno dei cammini più antichi della nostra storia. La valle è dominata da oltre cento castelli, sparsi sulle colline che ai due fianchi del fiume, testimoniano i famosi sistemi difensivi di epoca romana, bizantina e longobarda. Innumerevoli Chiese e Pievi, conservate fino a nostri giorni, testimoniano anch’esse com’era la vita di mille anni fa.

Il governo dei Malaspina1 riuscì a domare e convertire al cristianesimo il popolo bellicoso dei liguri, un popolo che adorava idoli molto simili alle statue-stele del Neolitico. Inoltre, con il “sistema delle Pievi”, centri di vita cristiana e religiosa che avevano il diritto di riscuotere la decima e i tributi sui raccolti, riuscì a pianificare l’amministrazione dei feudi. Le Pievi (Plebs) erano il “centro di circoscrizione ecclesiastica” a cui furono demandati l’amministrazione dei principali sacramenti a cominciare dal “battesimo” che prima veniva celebrato solo nelle cattedrali delle città. Tuttora i boschi di faggi, di castagni, i sentieri e le case dei piccoli borghi non sono tanto diversi da come li vide Sigerico più di mille e cento anni fa.


1 Malaspina: il nobile casato dei Malaspina, signori della Lunigiana discendente dagli Obertenghi il cui capostipite Oberto dal 951 fu Conte di Luni e Marchese della Marca Obertenga. Praticamente dominava su Luni (l’attuale provincia di Massa e Carrara “la Lunigiana”), su Genova e Tortona.


Le Pievi sono ancora arroccate sui crinali dei monti, attorno ai castelli, e non si pensi che la bellezza dei luoghi è inferiore alla fatica e l’impegno necessari a percorrere questi continui sali-scendi lungo boschi, torrenti e prati dove il pellegrino rischiava la vita, anche a causa dei briganti. Furono proprio i briganti a contribuire al formarsi di percorsi alternativi rispetto a quelli più facili. Infatti, per sfuggire ai briganti, i pellegrini percorrevano le varianti, preferendo sentieri più faticosi, tutti in salita e in mezzo a fitti boschi, pur di aggirare gli appostamenti dei briganti sui sentieri più frequentati.

In alta Lunigiana, la variante più famosa, per andare a Lucca, è la Via del Volto Santo, il percorso che da Pontremoli va verso sud attraversando i dirupi e le gole in località montuose della Garfagnana. In questa Via confluiscono tutti i sentieri dell’appennino tosco-emiliano, a sud del Passo della Cisa costeggiando le Alpi Apuane.

Sigerico percorse la cosiddetta Via Costiera ossia i sentieri della riva est del Fiume Magra, lungo la omonima valle. Oggi questa valle è un importantissimo incrocio incuneato fra Liguria e Emilia. Anticamente era ancor più importante sia per motivi militari che religiosi. I romani per primi ne capirono l’importanza strategica costruendo capisaldi, strade e ponti per facilitare la loro espansione sia via mare (Luni) che via terra (I valichi appenninici). Lo stesso avvenne durante il dominio dei bizantini e longobardi che, per contrastare le invasioni saracene costruirono torri di avvistamento e castelli. I longobardi ampliarono il Passo della Cisa.

I Pellegrini del medioevo avevano trasformato la Lunigiana in una vera e propria ragnatela. I sentieri divennero molto numerosi e, per dare una minima idea, ho fatto una mappa indicativa solo di alcuni dei sentieri di allora, verso Pontremoli.

Il libro continua con una mappa che ho fatto per descrivere la “ragnatela dei sentieri” che i pellegrini segnarono per andare verso Pontremoli.

5 pensiero su “Sul Passo della Cisa e Toscana, verso Lerici”
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