Licata, storia antica della mia terra natia

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Il mare incontaminato in contrada “Puliscia”

(concesso da Maria Clara Catania)

Voglio iniziare questa narrazione con una delle poesie siciliane più belle “E vui durmiti ancora!” , una serenata composta nel 1910 dal catanese Giovanni Formisano. Una poesia nata come serenata e inno all’amore e che divenne quasi un inno per i siciliani tutti. La poesia fu musicata da Emanuele Calì ottenendo un grande successo, e non solo in Italia.

Leggenda o verità? Nella prima guerra mondiale i soldati, tra una battaglia e l’altra, ritornavano in trincea. Si racconta che, in una di queste trincee e in una notte di luna piena, alcuni soldati catanesi, sopraffatti dalla nostalgia per la loro terra, cominciarono a cantare questa bellissima melodia. Subito dopo ci fu silenzio, anche nelle trincee nemiche, e, quando finirono di cantare, i soldati austriaci furono i primi ad applaudire.

“E vui durmiti ancora!”: il testo

Lu suli è già spuntatu di lu mari
e vui, bidduzza mia, durmiti ancora,
l’aceddi sunu stanchi di cantari
e affiddàti v’aspettunu ccà fora,
supra ssu balcuneddu su pusati
e aspettunu quann’è ca v’affacciati!

Li ciuri senza vui non ponnu stari,
su tutti ccu li testi a pinnuluni,
ognuno d’iddi non voli sbucciari
su prima non si gapri ssu balcuni,
dintra li buttuneddi su ammucciati
e aspettunu quann’è ca v’affacciati!

Lassati stari, non durmiti cchiui,
ca ‘nmenzu ad iddi, dintra ssa vanedda,
cci sugnu puru iù, c’aspettu a vui,
pri vidiri ssa facci accussì bedda,
passu ccà fora tutti li nuttati
e aspettu puru quannu v’affacciati.

La poesia “E vui durmiti ancora!”, di Giovanni Formisano (1910) musicata da Emanuele Calì, è cantata da Simona Sciacca.

In tanti discorsi, fra amici della mia gioventù, c’era sempre quello sull’avvenire: cosa fare? dove andare? Proprio quest’ultima domanda era l’assillo principale. Adesso, a distanza di sessant’anni e ormai abituato alle priorità dei giovani emiliani, ciò che mi rattrista è rivivere il forte dilemma di quei giorni. Ma il fatto che più mi addolora è il modo in cui si accettava quella realtà. Nessuno si chiedeva perché si dovesse andare. Nessuno pensava a ciò che si lasciava o cosa significasse estirpare le proprie radici, lasciando affetti e luoghi d’infanzia. Andar via era, e purtroppo lo è ancora, considerata una cosa “normale”. Ora è passato mezzo secolo, da quando lasciai la mia terra, e sento ancora quella sensazione di “amaro in bocca”, di rassegnazione e di finta allegria.

Oggi, 28 ottobre 2020, mi è giunta la notizia della pubblicazione del “Rapporto Migrantes 2020” ad opera della Fondazione Migrantes, l’organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, in cui sono evidenziati i dati relativi alla Sicilia (cito testualmente un sunto dell’articolo del quotidiano la Sicilia del 28/10/2020):

L’emigrazione ha svuotato la Sicilia: 784.817 i “cervelli” in fuga. Fra le 25 città italiane più colpite, da questo svuotamento di massa, ben sei sono le città siciliane. In testa c’è Palermo seguita da Catania e subito dopo Licata che ha perso la metà della popolazione.

Quest’altra canzone simboleggia lo struggente stato d’animo di molti siciliani costretti a lasciare la loro terra in cerca di un lavoro che migliorasse la loro condizione economica e desse un futuro migliore ai propri familiari.

“Amara terra mia” (cantata da Domenico Modugno)

LA STORIA ANTICA DI LICATA (Dal Neolitico alla fine dell’800):

La storia di Licata, l’attuale cittadina in provincia di Agrigento, sorta sulle rive del fiume Salso e bagnata dal Mar Mediterraneo, risale a più di 5000 anni, all’incirca al periodo Neolitico-stentinelliano (nome che deriva da Stentinello, la località nei pressi di Siracusa, dove sorge l’omonimo sito archeologico), come dimostrano i ritrovamenti archeologici custoditi nel museo cittadino della Badia.

Testimonianza della sua antichissima origine è l’Ipogeo dello Stagnone Pontillo un’opera antica scavata nella roccia calcarea attraverso una piccola apertura. L’Ipogeo è costituito da due grotte artificiali: la prima lunga dieci metri e larga cinque e la seconda molto più grande. Per sorregger la volta della caverna sono state ricavate tre bellissime colonne.

Per consentire l’accesso dall’alto fu scavata nella roccia anche una scala interna. L’Ipogeo fu costruito probabilmente come luogo di culto e di sepoltura, come testimoniano i loculi anch’essi scavati nella roccia.

Sulle pareti sono incise antiche scritture e graffiti che testimoniano il susseguirsi delle frequentazioni di antichissime popolazioni, i sicani, fino alle più recenti, con l’occupazione araba (827-1038 d.C.) che usarono il sito come cisterna, da cui il nome stagno, stagnone.

IL SITO NEOLITICO DI STAGNONE PONTILLO

Molti sono i nomi dati a Licata dai vari conquistatori che si succedettero nel dominio della città ma i più accreditati sono: Alukatos, Limpiadum, Limpiados, Lecatam, Cathal, Katta, Licatam, Leocata, Alicata.

Nel VII secolo a.C. i geloi (abitanti di Gela?) conquistarono la “montagna”, l’attuale collina dove sorge il “Forte” che domina Licata.

Nel VI secolo a.C., Falaride Tiranno di Agrigento sconfisse i geloi e per arginarne le incursioni costruirono una fortificazione sul fiume Salso.

Nel IV secolo a.C., i Cartaginesi (i fenici di Cartagine, in Tunisia) sbarcarono e conquistarono Licata.

Nel 256 a.C., durante la prima guerra punica i romani sconfissero Cartagine e Siracusa, che si erano alleate per arginare lo strapotere di Roma, conquistando tutta la Sicilia. A Licata, ai piedi del Monte Ecnomo, fu combattuta la più grande battaglia navale dell’antichità. Fu la vera prima guerra mondiale della storia: La Prima Guerra Punica che diede inizio al predominio di Roma nel Mediterraneo, ma con alterni rovesciamenti di potere.

Si scontrarono, in una battaglia navale nel Mediterraneo, le due più grandi potenze del mondo di allora. Per Roma, la vittoria sui Cartaginesi era assolutamente indispensabile da cui la famosa frase pronunciata da Marco Porcio Catone, di fronte a tutti i senatori romani, “Carthago delenda est” (Cartagine dev’essere distrutta). La flotta romana, formata da 230 navi e 97.000 soldati, comandata dal console Marco Attilio Regolo, sconfisse la flotta Cartaginese, formata da 250 navi e 150.000 soldati, comandata dai generali Amilcare e Annone.

I romani avevano consolidato il loro dominio a Licata ( Alicua) e vi rimasero fin quasi alla fine del loro impero.

Ma i destini delle due grandi potenze dovevano incontrarsi in un’altra guerra “La Seconda Guerra Punica”. I cartaginesi, che non riuscivano a vincere i romani sul mare aperto, per invadere la Sicilia e l’Italia, cambiarono strategia e, anziché via mare e attraverso la Sicilia, tentarono di arrivare a Roma da nord, attraverso la Spagna.

Nel 218 a.C. con a capo il suo più grande condottiero, Annibale, formarono un grande esercito e con in testa 37 elefanti e più di 100.000 soldati, costeggiando il sud della Spagna si diressero in Gallia, verso Agathe.

I Romani, credendo che i cartaginesi volessero passare lungo la costa, li aspettarono a Marsiglia per fermarli definitivamente. Invece Annibale avanzò verso nord e poi verso le Alpi. Attraversò le Alpi, probabilmente dal Ticino (ancora non è stato scoperto esattamente dove attraversò), e con un esercito stremato da una fitta nevicata valicò il passo. Le sue truppe si “rovesciarono” sul versante italico come un fiume che straripando inonda una pianura. La sua avanzata non ebbe termine e invase tutta l’Italia.

Mentre i Romani ritornavano verso l’Italia, Annibale vinceva le resistenze dei popoli locali: a Taurinia (Torino)sconfissero i Taurini e a Piacentia (Piacenza). I romani che erano ritornati precipitosamente da Marsiglia, opposero strenua difesa. Ma la marcia di Annibale e dei suoi nuovi alleati (i Galli) continuò verso sud, e devastando tutti i territori occupati puntò alla conquista dell’odiata Roma. Fu inarrestabile, occupò l’Italia del nord e oltrepassò gli Appennini invadendo la Toscana e l’Umbria. Sul lago di Trasimeno i romani subirono un’altra pesante sconfitta. Ormai Annibale era quasi al fiume Tevere, ma privo di alleati locali, anzichè proseguire per Roma marciò verso sud-est pensando di aggirarla. Accadde in Puglia, ed esattamente a Canne,che i romani subirono una delle più grandi sconfitte della loro storia oltre che per audacia anche per la strategia militare. Infatti furono uccisi più di 45.000 legionari mentre le perdite di Annibale furono meno di 6000 uomini.In seguito i romani non attaccarono più frontalmente i cartaginesi e preferirono potenziare le difese. Annibale arrivò a pochi chilometri da Roma e, non avendo più le risorse di prima, non potette continuare un lungo assedio. Per alcuni anni successivi si preoccupò di consolidare le città meridionali, conquistando pure Taranto. Nel 204 a.C. Roma inviò Publio Cornelio Scipione (detto l’africano) che dalla costa trapanese della Sicilia sbarcò sul golfo di Cartagine (Tunisi). Fu la mossa vincente. Annibale fu richiamato e costretto a ritornare in Africa. S’imbarcò in Calabria, sul mare Jonio, per aggirare la Sicilia, presidiata dai romani, e giungere sulla costa tunisina. Qui formò un esercito di 11.000 soldati e, anzichè dirigersi a Cartagine, proseguì verso Zama (in Tunisia) dove i romani stavano devastando il retroterra di Cartagine. Ma questa volta a nulla valse la strategia di Annibale in terra africana. A Zama, Scipione lo sconfisse duramente e definitivamente. Annibale si suicidò, per la vergogna. La Sicilia cominciò a conoscere un periodo di tranquillità sociale.

Diodoro il Siculo

Intorno al 49 a.C., Diodoro il siculo, ad Agira nella sua “Bibliotheca Historica“, un’opera a cui dedicò trent’anni della sua vita, scrisse che Finzia, tiranno di Akragas (l’attuale Agrigento), nel 282 a.C. fondò Finziade (l’attuale Licata).

Da qui in poi ebbe inizio la storia dopo Cristo.

Nel 330 d.C. l’Impero Romano si divise in due imperi: l’Impero Romano di Occidente e l’Impero Romano d’Oriente, a cui fu assegnata la Sicilia che, a causa della lontananza dai due imperi, fu trascurata e divenne facile bottino per i barbari.

Dal 440 in poi, Eruli, Goti e Vandali si succedettero nel dominio della Sicilia. I vandali di Genserico, popolo di origine germanico, attraversata l’Europa e la spagna, sconfissero Cartagine e dilagarono nel nord Africa.

Nel 439, dopo aver costruito una grande flotta, sbarcarono a Lilibeo (presso Trapani) alla conquista di Palermo che non riuscirono a espugnare. Allora si diressero verso sud occupando tutta la costa e perseguitando tutti i cristiani. Uccisero i religiosi e profanarono tutti i santuari di allora. In seguito ad un accordo con Bisanzio, e con la promessa della donazione di vasti territori del Nord Africa, lasciarono la Sicilia.

Nel 468, e dopo la morte dell’Imperatore di Bisanzio, i Vandali tornarono a fare incursioni e riuscirono ad occupare anche tutta la parte orientale della Sicilia restandovi per otto anni.

Nel 475, i Vandali vendettero la parte orientale dell’isola a Odoacre, re degli Eruli, che dopo due anni, alla morte di Genserico, cominciò ad occupare i territori Vandali della parte occidentale. Nel 486 occupò tutta la Sicilia.

Nel 493, Teodorico il Grande, re degli ostrogoti, sconfisse e uccise Odoacre sostituendolo nel dominio di tutta l’Italia con il titolo di re d’Italia.

Nel 535 d.C. l’imperatore di Bisanzio “Giustiniano” inviò il generale Belisario che sconfisse gli ostrogoti ed in seguito liberò Licata (Alicata) e tutta la Sicilia. Il dominio bizantino durò 14 anni.

Nel 546 gli ostrogoti riconquistarono tutta l’Italia e dopo tre anni la Sicilia che fu devastata duramente per non aver resistito a Belisario.

Nel 550 L’Imperatore Giustiniano, inviò Artabane che sconfisse Totila, re dei Goti, riconquistando la Sicilia. In seguito inviò Narsete che sconfisse Ostrogoti, Franchi e Alemanni riconquistando tutta l’Italia.

Nel 827 fu la volta degli arabi ad invadere la Sicilia e vi restarono fino al 1038, quando i bizantini la riconquistarono e mantennero per solo 4 anni. Infatti nel 1042 gli arabi tornarono in Sicilia e vi rimasero per altri 40 anni. Quindi la dominazione araba in Sicilia durò circa 250 anni.

Nel 1086 Ruggero I re dei Normanni conquistò la Sicilia. Per Licata fu un periodo di prosperità. Fu ricostruito il Castel San Giacomo, la chiesa di Santa Maria La Vetere, la chiesa di Sant’Agostino, la chiesa del Purgatorio.

Nel 1190 inizio il predominio degli Svevi con Tancredi a cui succedettero prima Enrico e poi il grande Federico II imperatore del Sacro Romano Impero, che dette a Licata il titolo di Dilettissima tra le tante città demaniali siciliane. Intanto Licata prosperava e continuò a farlo fin oltre la morte dell’imperatore.

I discendenti dell’imperatore continuarono a fortificare le difese della città e i luoghi di culto. Castel San Giacomo fu fortificato con il rafforzamento della cinta muraria e tanto che, tra il 1200 e 1300, fu considerato il più importante dopo il Castello a Mare di Palermo ed il Castello Maniace di Siracusa. Fu restaurata la Chiesa dei Santi apostoli Filippo e Giacomo (l’attuale Chiesa Sant’Angelo), la Chiesa del Carmine e la Chiesa di San Giovanni dei Cavalieri di Gerusalemme (l’attuale Chiesa di San Francesco). Licata continuò a ingrandire e prosperare anche sotto i suoi nuovi dominanti

Dal 1266 al 1282 regnarono per 16 anni gli Angioini. Forse fu in questo periodo che emerse uno spirito di indipendenza nel cuore del popolo siciliano. Con i Vespri Siciliani, che causarono la caduta degli Angioini, Licata partecipò alla rivolta siciliana uccidendo i soldati francesi che presidiavano il Castel San Giacomo, ma quella rivolta fu come una meteora. I siciliani non seppero capire cosa avevano conquistato con la loro unione. Lo spirito d’indipendenza cessò subito.

Nel 1282, agli Angioini subentrarono gli aragonesi. Licata continuò il suo periodo di benessere contribuendo a ripristinare una roccaforte: Castello Nuovo detto (u Casteddu, nel quartiere Orto).

Nel 1412 subentrarono i castigliani che dominarono per oltre cent’anni. Nel 1516, e per quasi altri duecento anni succedettero gli spagnoli. Durante il dominio spagnolo i licatesi manifestarono più volte sentimenti di rivolta. Nel 1542 avvenne anche un grave terremoto che causò il crollo delle mura di Castel San Giacomo e, approfittando di ciò, nel 1553 fu invasa dalla flotta franco turca che distrussero anche Castel Nuovo.

Nel 1553, l’11 luglio, Licata subì il più feroce massacro della sua storia. L’Imperatore turco Solimano e il suo alleato re di Francia, decisero di inviare una flotta comune di 104 galee, comandata dall’ammiraglio turco Dragut, a invadere le città fortificate di Augusta (in provincia di Siracusa) prima e di Licata dopo. I musulmani riuscirono a conquistare Augusta e dopo averla saccheggiata e rasa al suolo fecero vela verso Licata. Nonostante le forze predominanti degli assalitori i licatesi opposero strenua resistenza, asserragliati dentro il Castel San Giacomo, tant’è che il primo attacco degli assalitori fallì. Forse fu proprio questo ad aumentare il rancore e la ferocia dei Turchi. Dragut ordinò un secondo assalto ma stavolta preceduto da un martellante bombardamento, da parte delle sue galee, spostate alla foce del fiume Salso. I musulmani riuscirono a fare breccia e scavalcate quelle mura massicce conquistarono il castello. Licata cadde e fu invasa da un’orda selvaggia che non risparmiò nessuno. Furono selvaggiamente massacrati donne, bambini, soldati e uomini ormai inermi. Moltissime donne vennero violentate, le chiese profanate, le sacre effigie dei Santi divennero bersaglio di frecce sacrileghe e i monaci uccisi. Alla fine della strage, 600 persone furono incatenate per essere vendute come schiavi nelle città musulmane.

Dopo quelle atroci incursioni furono erette alcune torri di avvistamento: la “Torre San Nicola” (dai licatesi chiamata “Santa Nicola”), la “Torre di Gaffe” e la “Torre di Castel Sant’Angelo“.

 Nel 1575, prima, e nel 1625 ci fu la peste.

Tra il 1625 e il 1645 a Licata sbarcarono oltre 1000 maltesi (i primi migranti) che aumentarono la già esistente colonia dei maltesi, costretti a fuggire a causa delle incursioni turche. I maltesi si insediarono nel quartiere San Paolo (il patrono dei maltesi).

Tra il 1650 e il 1720, Licata visse un periodo di relativa tranquillità, nonostante i soliti alleati, Francesi con Turchi, facessero continue incursioni.

Fino al XIX secolo Licata, grazie alla sua posizione al centro del mediterraneo, conobbe un periodo di prosperità economico e di sviluppo demografico che continuò a crescere fino al 1981 (come risulta dai censimenti decennali della popolazione). Purtroppo a Licata avvenne in piccolo ciò che a Roma, con la nobile famiglia dei Barberini, avvenne in grande: “Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini“. Con l’unificazione dell’Italia (1861) ad opera dei Savoia, che sconfissero i Borboni, la necessità di aumentare il traffico portuale indusse gli amministratori locali a costruire il porto, ma per fare ciò pensarono di utilizzare il materiale base demolendo il glorioso Castel San Giacomo. Ciò che fino ad allora era stato il vanto della popolazione e l’emblema della storia di Licata fu distrutto e con esso “fu distrutta l’anima” del popolo licatese. Licata continuò a crescere. Furono costruite fabbriche, strade, palazzi e il faro, chiamato S. Giacomo in memoria del Castello.

Nel 1874 il tratto centrale dei camminamenti che collegavano la Grangela a Castel Nuovo fu distrutto. Castel Nuovo era allo stesso piano della Grangela (nella attuale Via Santa Maria) e per costruire un più largo accesso a mare si costruì la Via Marconi (“a Via ô Mari”) che collega Piazza Progresso a Via Marianello.

–Il pozzo della “Grangela”:

Non è possibile datare con precisione la costruzione di questa magnifica opera di ingegneria idraulica, di sicuro risale all’età del bronzo (2000-1000 a.C.). Sulla roccia calcarea di Via Santa Maria fu scavato un pozzo profondo 18 metri con annessa scala al fondo del pozzo.

Dal fondo del pozzo furono scavati 4 canali fino alle falde acquifere così da assicurare l’approvvigionamento idrico di quel quartiere (cosa che i Siculi1 migliaia d’anni fa sapevano fare, gli amministratori di allora).Su questa costruzione sono sorte tante supposizioni e legende.

Di una di queste mi ricordo anch’io: “La legenda (u “kundu”, il racconto) dei Rianeddri”.

I “Rianeddri” erano spiriti che abitavano il pozzo della Grangela e che ogni tanto uccidevano sette bambini, trascinandoli in fondo al pozzo. Sicuramente questa legenda era nata per intimorire i bambini e non farli avvicinare al pozzo.

Il sito archeologico della Tholos:

Durante la costruzione di Via Guglielmo Marconi (di cui sopra) venne alla luce un antichissimo sito. Dalla roccia scavata nel lato sotto Via Santa Maria, emerse una costruzione tronco-conica sormontata da un foro di accesso. Per fare la via fu tagliata una parte laterale della Tholos ma, quel che fu più grave, furono distrutti i cunicoli che probabilmente collegavano la costruzione ai camminamenti fra la Grangela e Catel Nuovo.

Sulla Tholos, purtroppo, non si hanno documentazioni sul periodo della loro realizzazione ne certezze sul loro uso. Rimane solo una legenda popolare, secondo cui la Tholos fosse la tomba del mitico Minosse re di Creta che, sempre secondo la legenda, fu ucciso in Sicilia.

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1 Siculi: erano una popolazione originaria dell’attuale Campania settentrionale e del Lazio che si erano stanziati nella Locride il versante ionico dell’attuale città metropolitana di Reggio Calabria. In seguito furono scacciati e si rifugiarono nei territori della Sicilia orientale, e poi in tutta la Sicilia. Sicuramente fu il primo popolo ad integrarsi con le popolazioni autoctone e con tutte le loro usanze, credi e tradizioni.

Le sorti di Licata avrebbero avuto un arresto prima e un arretramento poi, con “La Prima guerra Mondiale“. Ma da qui in poi è tutta un’altra storia.

La storia moderna.